Prolusione

“Il paesaggio come strumento progettuale per il territorio”

Prof. Claude Raffestin - Docente di Geografia presso l’Università di Ginevra

 

 Dalla realtà all’immagine o dall’immagine alla realtà?
     
Molti di quelli che lavorano nella pianificazione territoriale hanno una tendenza implicita a fare della parola paesaggio un sinonimo della parola territorio e vice versa.
     E’ una falsa identità. Il paesaggio è l’immagine e, soltanto, l’immagine del territorio. Proviamo a fare la distinzione tra paesaggio e territorio. Non voglio, per l’ennesima volta, riaprire il vecchio dibattito tra l’oggetto materiale e la sua immagine, tra la cosa e il segno della cosa, ma non vedo com’è possibile parlare di strumento senza avere un’idea sufficientemente chiara del problema. Il referente è un prodotto della storia e dunque della società e, per questa ragione, in costante evoluzione. In un certo senso, il “paesaggio non esiste”!
     Quando si parla di protezione del paesaggio, di che cosa si parla, della protezione dell’immagine d’un luogo o della realtà materiale di questo luogo? Ma allora, se non sappiamo di che cosa parliamo, come si può sapere che cosa è da proteggere o da conservare? Per capirlo, dobbiamo ritornare alla produzione del territorio da una parte e a quella del paesaggio dall’altra.

All’origine c’è il lavoro
     Ciò che crea il territorio è il lavoro nel senso delle parole tedesche
Handarbeit (lavoro manuale) o körpeliche Arbeit (lavoro fisico); mentre il Geistesarbeit (lavoro intellettuale) o geistige Arbeit  (lavoro spirituale) crea il paesaggio: “Il lavoro manuale crea oggetti dei quali il pensiero teoretico contempla solo l’”apparenza”1.
     Il territorio, creato dal lavoro, in questo senso, si distingue dal concetto di paesaggio inventato dalla società per darsi una rappresentazione della natura antropizzata derivata dalle diverse attività sociali. A questo punto è utile riprendere la definizione del paesaggio data dalla Convenzione del paesaggio: “Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” … Questa definizione è assolutamente chiara nella sua confusione: il paesaggio è territorio, ma il territorio non è sempre paesaggio! C’è un problema di logica, ma non soltanto di logica.
        Il paesaggio non esiste perché le percezioni sono numerose e diverse le une dalle altre. Una popolazione non percepisce perché non ha occhi, invece le persone percepiscono e possono influire sulla scelta di un’immagine particolare che diventa o può diventare emblematica per un gruppo umano. Questa immagine può, alla fine, essere considerata come “il paesaggio”, con un articolo definito, che evidenzia un rapporto particolare tra una comunità e un territorio, tra un uomo culturale e luogo esistenziale. Questa relazione esprime, allo stesso tempo, una costruzione fatta da materialità e immaterialità. Una popolazione non “vede” nel senso fisiologico del termine, ma è in grado di “produrre una rappresentazione”, che talvolta può esprimere una struttura profonda osservabile nella cultura della popolazione. La foresta, per esempio, come paesaggio, è importante per i tedeschi come quello della montagna per gli svizzeri e, naturalmente, come quello delle colline per gli abitanti dell’Astigiano.
     Dobbiamo essere prudenti perché questo paesaggio definito come tale è, il più sovente, introvabile perché rappresenta un territorio materiale che non esiste più, nella realtà come esiste ancora nella nostra mente. La rappresentazione, naturalmente, è stata ricostruita in un modo metafisico da un’elite per ragioni ideologiche, per mantenere un’identità passata o per promuoverne una nuova. A questo punto si deve ricordare che gli uomini delle comunità e delle società non abitano, immediatamente, l’immagine, ma la realtà materiale delle cose. Voglio dire che non si deve sacrificare il luogo di vita  dell’essere umano all’immagine di quest’ultimo.
     E’ un vecchio problema già evocato quasi 4 secoli fa da Francis Bacon: “Les maisons sont faites pour y vivre et non pour qu’on les regarde: il faut donc faire passer la commodité avant la symétrie, si l’on ne peut avoir les deux. Laissez les édifices faits pour la seule beauté aux palais enchantés des poètes qui les construisent à peu de frais. Celui qui bâtit une belle maison dans un mauvais site se loge en une prison; … Et ce n’est pas seulement le mauvais air qui fait le mauvais site; il y a ancore les mauvaises routes, les mauvais approvisionnements et, si l’on consulte Momus, les mauvais voisins”
2 .
     Questo programma (1625) d’ecologia dell’abitato, ante litteram, e malgrado la sua formulazione sorprendente non manca d’interesse, ancora oggi. Un autore contemporaneo ha fatto eco a Bacon: “La costruzione dello spazio abitato deve soddisfare una pluralità di esigenze dello spirito, che implicano capacità inerenti alla sfera sociale, psicologica, affettiva, oltre che quell’artistica: una sintesi difficile, che si può solo perseguire pazientemente per gradi, il primo dei quali è l’appropriatezza, l’adeguatezza in altre parole delle forme ai significai dei diversi luoghi”
3. Aggiunge ancora che non occorre tutto sacrificare al risultato estetico.

Il paesaggio come strumento
     In questo senso, il paesaggio potrebbe essere considerato da una società come uno strumento di riscoperta di se stessa alla maniera d’una persona anziana che davanti ad una collezione di fotografie spiega ad un nipote il percorso della sua vita: vedi, in questa foto, ho 20 anni e sono in montagna con lo zio … Qui sono nella vecchia città di … e la bambina accanto a me, è la tua madre che ha allora 6 anni un po’ meno di te ora ecc. Interessato o no, il nipote sarà messo nella situazione di assistere ad una specie di film curioso, strano ma non estraneo a lui. In ogni modo queste fotografie raccontate secondo una messa in scena peculiare costituiscono un documento per ricostruire un passato che, naturalmente, non esiste più, ma che si può raccontare attraverso tracce diverse.
     Il paesaggio può essere definito, in questo caso, come un’immagine, in pratica un geogramma della realtà materiale. Quest’ultima è la geostruttura. Siamo allora di fronte ad un doppio sistema di relazioni tra la materia reale in divenire e le diverse possibili rappresentazioni di questa realtà.
      Il geogramma rimane sempre un valore perché testimonia della storia. Diventa uno strumento di estremo valore quando la realtà materiale è stata distrutta. Grazie in parte ai quadri di Bernardo Belloto, figlio di una sorella del Canaletto, è stato possibile di ricostruire meglio certi palazzi di Varsavia. Il Belloto aveva imparato dallo zio l’arte di ritrarre lucidamente vedute di città e di paesi. Un geogramma, un quadro del Belloto, per esempio, ha un valore sincronico nella misura in cui l’immagine riflette un momento del tempo e rimane fissa. La geostruttura, invece, ha un valore diacronico perché è prodotta secondo un modo continuo e si trasforma attraverso il tempo.
     Il doppio rapporto diacronico/sincronico rende conto del ruolo sociale dell’Handarbeit da una parte e del Geistesarbeit, da un’altra.

Materialità/Lavoro manuale: Geostruttura
Idealità/Lavoro intellettuale: Geogrammi

     Per far capire questo doppio sistema, possiamo citare l’approccio dei pittori degli anni 80 del Settecento quando alle vedute di Roma: astrazione e razionalismo per rivelare le forme geometriche implicite della realtà da parte del “Cercle de David” che ha fatto dire ad Umberto Eco: “ho avuto l’impressione che questi Francesi copiavano degli artisti venuti più tardi: De Chirico, la Metafisica”4. L’immagine disegnata e/o dipinta costituisce uno strumento di scoperta. Di scoperta del nascosto nella realtà, ma anche e soprattutto una scoperta di “se stesso in un ambiente sociale” attraverso l’eliminazione o la messa in evidenza d’elementi particolari: L’influenza di David su Saint-Ours si vede attraverso l’eliminazione per rappresentare Ginevra delle Alpi, del lago, ecc. per rappresentare Ginevra come era Atene, città antica con la sua Acropoli, il suo tempio e le sue muraglie; una città ideale che corrisponde ad una buona gestione politica, la perfezione della forma riflette il sistema democratico secondo i principi della rivoluzione5.
     E’ finalmente la ricerca di una traduzione della città (geostruttura) nei termini di una geometria pura (geogramma). Siamo di nuovo confrontati ad un doppio sistema di rapporti: l’immagine come strumento di scoperta del nascosto di diversi luoghi che possono essere dipinti e l’immagine come strumento storico per rendere comprensibile le diverse ideologie messe in movimento da rappresentanti di società che vogliono dare un’identità al loro sguardo.
     La realtà geografica diventa un pretesto alla produzione d’immagini. Immagini suscettibili di insegnare una doppia cosa nello stesso momento sul luogo e sullo sguardo del soggetto che produce la rappresentazione.
     Il lavoro che fa un geografo sulla geostruttura, è anche molto influenzato dalla sua formazione. Per lo stesso paesaggio, possiamo avere diverse rappresentazioni secondo che il geografo è particolarmente ossessionato dalla città, dal mondo rurale o dalla geomorfologia. Forse, è il momento di ricordare il quadro di Buzzati il cui tema è il Duomo di Milano, ma dipinto con un linguaggio pittorico preso dalla visione delle Dolomiti.
     In ogni modo, qualsiasi sia la forma della rappresentazione, questa è sempre uno strumento per fratturare il reale. L’immagine, sarebbe meglio parlare delle immagini, è sempre necessaria per appropriarsi il reale. Non c’è l’apprensione del reale senza l’aiuto di un’immagine. Le conoscenze che produciamo sul reale sono contenute, in parte, nelle rappresentazioni che usiamo per creare. A qualsiasi livello, il reale è una costruzione sociale ed è per questa ragione che lavoriamo sempre, sovente senza saperlo, sulla rappresentazione più che sulla realtà materiale.
     Questa idea è perfettamente illustrata dagli indirizzi operativi per gli interventi edilizi in zona agricola del comune di Asti di dicembre 2005 e nell’appendice alle norme tecniche di attuazione nelle quali il ricorso ai disegni è molto significativo. Questi indirizzi rivelano un certo modo di guardare.
     Infine, possiamo riprendere la Convenzione del paesaggio per mostrare il ruolo che l’immagine può e deve giocare nella
 
“Politica del paesaggio” che designa la formulazione, da parte delle autorità pubbliche competenti, dei principi generali, delle strategie e degli orientamenti che consentano l’adozione di misure specifiche finalizzate a salvaguardare, gestire e pianificare il paesaggio;

nel

”Obiettivo di qualità paesaggistica” che designa la formulazione da parte delle autorità pubbliche competenti, per un determinato paesaggio, delle aspirazioni delle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita;

nella

“Salvaguardia dei paesaggi” che indica azioni di conservazione e di mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, giustificate dal suo valore di patrimonio derivante dalla sua configurazione naturale e/o dal tipo d’intervento umano;

nella

“Gestione dei paesaggi” che indica le azioni volte, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, a garantire il governo del paesaggio al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici ed ambientali;

nella

“Pianificazione dei paesaggi” che indica le azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi.

     Il territorio è il luogo di vita che si può trasformare, rispettando le grandi eco-bio-antropo-logiche che assicurano la permanenza delle condizioni di esistenza. Il paesaggio, come rappresentazione o immagine, si può non soltanto trasformare, ma anche manipolare. Questa idea di manipolazione non è negativa. Invece, questa idea garantisce la libertà di poter ricercare la migliore rappresentazione che rende conto della volontà sociale. Territorio e paesaggio sono le due facce di una sola cosa “l’abitare” che deve, nella sua concezione, essere il luogo d’incrocio dell’etica e dell’estetica. La geografia e la poesia si raggiungono e s’incrociano anche in questa prospettiva.
     Il geografo francese Vidal de la Brache ha scritto: << L’homme a été, chez nous, le disciple longtemps fidéle du sol. L’étude de ce sol contribuera donc à nous éclairer sur le caractére, les moeurs et les tendances des habitants>>.
     Il poeta portoghese Miguel Torga ha risposto: “L’histoire d’un peuple est inséparable de la contrée qu’il habite”.
     Tra il geografo e il poeta non c’è una gran differenza di pensiero perché le loro rappresentazioni o si preferisce le immagini che le guidano hanno la stessa struttura, si radicano nel mondo rurale, ma oggi non è più possibile pensare così e si deve inventate nuove immagini paesaggistiche per orientare “l’abitare” futuro.       Non possiamo prendere in considerazione le immagini del mondo rurale con la stessa intensità di una volta; dobbiamo pensare ad una territorialità che sia in grado di combinare le aspirazioni naturali a quelli relazionali del mondo urbano.
        Certo occorre salvaguardare il paesaggio, ma accettare, allo stesso tempo la sua evoluzione perché le attività cambiano e le identità si ricostruiscono al loro ritmo.
     L’uomo è, e deve rimanere, creatore del suo territorio e delle immagini di quello ultimo. La velocità dell’evoluzione dei territori mette in causa le immagini che vorremmo preservare. La nostra società è diventata paesaggistica nel senso che c’è la voglia di adattare, in modo ininterrotto, la scena del teatro ai nostri bisogni.      Non siamo più una società stabile, ma al contrario in una società liquida e per questa ragione pericolosa, perché è una società che ha sempre meno il senso della memoria. La conseguenza immediata di questa amnesia accelera paradossalmente da una parte la neofilia paesaggistica e da un’altra la patrimonializzazione senza una riflessione sufficiente.
     Si potrebbe evocare un apologo che un’antropologa un po’ dimenticata, Ruth Benedict, fa dire ad un capo indiano Ramon: “All’inizio, Dio ha dato ad ogni uomo una scodella di argilla nella quale gli uomini bevvero la loro vita”. Oggi la nostra scodella è distrutta e le cose che avevano dato un senso alla nostra vita sono scomparse. E’ una maniera poetica per dire che la matrice identitaria è morta. Non siamo nella situazione di questi indiani perché siamo in grado di rifarci un’identità, ma non dobbiamo cancellare le tracce delle identità passate.

[1] Sohn-Rethel, Geistige und körperliche Arbeit, VCH, Weinheim 1989, pp.1-2.

[2] Francis Bacon, Essais, Paris 1939, pp.231-233.

[3] Adriano Cornoldi, Le case degli architetti. Dizionario privato dal Rinmascimento ad oggi, Marsilio, Venezia, 2001, p.9.

[4] Anna Ottani Cavina, I Paesaggi della Ragione

[5] Ottani Cavina, p.66.