Discariche. Questioni etiche ed ambientali.
(prima parte)
Dott. Franco Correggia
Associazione Terre, Boschi, Gente e Memorie
Veduta dell'ex-discrica astigiana di Valle Manina
In ossequio a quella che è ormai una ciclica ritualità, l’Astigiano è di nuovo alla ricerca di un sito dove occultare (seppellendoli) i rifiuti pretrattati che quotidianamente vengono prodotti dalla sua galassia di Comuni piccoli e grandi (capoluogo compreso).
L’approccio metodologico seguito dai tecnici incaricati al fine di individuare il luogo che dovrà inghiottire i materiali refrattari ad ogni ulteriore processo di recupero e riciclaggio è senza dubbio, sul piano formale, scientificamente corretto ed eticamente onesto. Semplificando un po’, lo si può riassumere così: dopo avere escluso, attraverso una serie di sovrapposizioni cartografiche, tutte le zone della provincia di Asti soggette a vincoli che tassativamente non consentono la realizzazione di discariche al loro interno, è residuato un mosaico di 149 aree definite potenzialmente idonee, dalla cui successiva scrematura (sulla base di ulteriori analisi ed indagini mirate) emergerà il sito finale, destinato per almeno un quinquennio ad accogliere i rifiuti astigiani.
Ora il punto è che, nonostante l’assoluta correttezza, l’ineccepibile professionalità e l’indiscussa onestà dei tecnici preposti, la reiterata applicazione di tale metodo produrrà nel lungo termine effetti ambientalmente devastanti ed eticamente inaccettabili. E ciò non certo per colpa dei suddetti tecnici (i quali non possono far altro che muoversi lungo i binari imposti da prassi scientifiche consolidate e da rigide normative di carattere generale), ma a causa di una carenza concettuale e politica (in senso lato) che sta a monte. Cerco di spiegarmi.
Consideriamo il caso di un Comune
astigiano che, al fine di privilegiare le ricadute economiche positive (almeno
per qualcuno) indotte nell’immediato dalla costruzione debordante di infrastrutture
pesanti (strade, autostrade, viadotti, ecc.) e dalla proliferazione neoplastica
di insediamenti produttivi e residenziali (capannoni, villette, cave, ecc.),
abbia fortemente “maltrattato” il proprio territorio, punteggiando quest’ultimo
con una costellazione diffusa di elementi dissonanti e disordinati aventi l’effetto
di frammentare gli ecomosaici, degradare il paesaggio, insularizzare gli ambiti
ecosistemici, disarticolare il continuum scenico-paesistico, perturbare
gli assetti ecoculturali tradizionali. Orbene, nella prospettiva della ricerca
di un sito per discarica ciascuno di questi elementi disarmonici (che nel complesso
si distribuiscono in modo capillare e tentacolare nella matrice territoriale
sovvertendone in profondità le filigrane storico-insediative e le specificità
ambientali) genererà comunque, in maniera cogente e automatica, una “fascia
di rispetto”, una “distanza minima da osservare”, una “zona di sicurezza obbligata”
in grado di allontanare, in misura contenuta ma significativa, la potenziale
installazione di un impianto per lo smaltimento dei rifiuti (il quale, per quanto
meno impattante rispetto alle discariche di un tempo, resta pur sempre una struttura
che inquina e che incide negativamente sulla qualità ambientale e paesaggistica
del territorio su cui insiste). La confluenza delle “fasce di rispetto” relative
a ciascuna di tali preesistenze origina a sua volta zone via via più
ampie che si sottraggono a priori alla possibilità di divenire sede di
discarica. È altamente probabile che, come risultato del saldarsi e del
collabire di tali aree “immuni”, l’intero territorio di quel Comune ambientalmente
degradato e disseminato di stridenti elementi puntuali di disturbo paesaggistico
divenga formalmente inidoneo ad accogliere il sito di stoccaggio dei più
o meno inerti rifiuti provinciali.
(continua)
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