Relazione presentata al

Convegno a ricordo del Prof Italo Currado

Asti, sabato, 22 luglio 2006

Salone della Società Mutuo Soccorso “Fratellanza Militari in Congedo”, Via Bonzanigo 46, h 9,00-13,00
 

Ito De Rolandis

 

Le nostre famiglie si conoscevano da sempre, ma il padre di Lillo, il professor Currado ebbe la ventura di “ascultare” la mia schiena una sola volta, nella primavera del 1944, quando, tornando in bicicletta dai miei cugini di Villanova, finii nel bel mezzo di un gelido temporale. Due giorni dopo, il 10 aprile, mi venne un febbrone e Carlo Currado, che stava a Portacomaro, giunse a Castell’Alfero. Lillo lo conobbi in via Roero, alle scuole medie presiedute dal professor Lovisone. Entrambi avevamo avuto qualche dissapore da liesòn con la terribile professoressa di francese Odero Zanne; mai cognome fu meglio coniato per sottolineare la severità di quella brava insegnante. Lillo stava dalle parti di corso Dante, io a San Pietro, da mia nonna Balma. Ci si trovava lungo corso Alfieri, davanti alle vetrine di Caldi o di Gaggia, o mentre infilavamo monetine nel “Novecento”, distributore automatico di dolciumi. “Automatico” mica tanto, sapevamo benissimo che le confezioni venivano smistate dalla “Silvana”, il cui volto passò alla storia come la misteriosa “Velata” di San Pietro in Vincoli.

      All’università gli astigiani del mio tempo facevano crocchio: Squillante, Amerio, Tamburi, Valpreda, Bosia, Dapavo. Era piccolino e magro Dodi Bocco ma per nulla timido ed era vivace, di compagnia e pronto alla battuta Maggiora, non ancora carrozzato Cassa di Risparmio. Con 220 lire a pasto, pranzavamo al Collegio Universitario di via Galliari, e con 380 allo “Scudo”, dove ci scappava anche una fetta di torta. Lillo aveva il pregio di non parlare a vanvera. Poteva sembrare riservato, forse lo era, ma non con gli amici, sempre disposto alle “novità”. Rita Levi Montalcini un giorno mi disse che la curiosità è l’alimento dell’intelligenza: il cervello infatti ha bisogno di informazioni, e solo l’interesse verso l’insolito può fornire argomenti di arricchimento intellettuale.

       Lillo era un “curioso”, aveva una gran sete di sapere, di conoscere. Lui aveva scelto agraria, io farmacia. Lui era perseverante, io aperto all’avventura. Un giorno nella saletta dell’Interfacoltà si affacciò un giovanotto ricciolino il cui volto divenne noto. Era Enzo Tortora. Cercava giovani che volessero collaborare col “Gazzettino Padano” una trasmissione della Rai per l’Italia Settentrionale. “Ottanta mila lire al mese come primo stipendio” precisò con la concretezza dei buoni genovesi. Fu così che salutai la combriccola, ripiegai i libri nella cartella ed entrai nel palazzo della Rai in via Montebello. Al “Gazzettino Padano” rimasi poco: iniziavano le trasmissioni sperimentali televisive ed alle 18,30 “ora del passeggio“ veniva irradiato il primo Telegiornale. I torinesi lo guardavano dalle vetrine dei negozi di elettrodomestici. Lo “studio” era sul tetto della Rai, dove Marco Lombardi riusciva ad inquadrare me , che leggevo, e la Mole, che stava alle mie spalle! Ed era l’equivalente dell’insegna di Torino. Tra il personale tecnico vi era Bruno Gambarotta, altro volto pacioccone simpatico e spiritoso nato ad Asti in via Aliberti. Noi astigiani avevamo come santo protettore Giovanni Viarengo, vicedirettore generale, di Castel D’Annone. Oltre a Tortora, miei compagni nella neonata Tv erano Piero Angela, Emilio Fede, Febo Conti, Silvio Geuna.

        Era il 1958 quando Lillo si fece vivo con una telefonata: “Ito, perché non fai un bel servizio sulla scomparsa di olmi ed ulivi dalle colline del Monferrato?” Detto fatto Currado organizzò una tavola rotonda alla quale parteciparono anche i professori Goidanich (che era preside di facoltà) e Bruno Peyronel (dell’orto botanico). Lillo introdusse l’argomento ricordando gli olmi di Napoleone, e del perché esistono ancora toponimi come San Marzano Uliveto. Qualche tempo dopo fu ancora Lillo a mettermi al corrente di uno strepitoso ritrovamento: “Sulle alture di Vigliano d’Asti” mi disse “un contadino si è imbattuto in un’osso di balena. Non è stato ancora dissotterrato del tutto, ma è lungo più di 10 metri” esclamò raggiante. Ne uscì un bel documentario messo in onda in “Arti e Scienze”, una trasmissione che solleticava l’intuizione di Piero Angela. La pellicola andò al “Premio Italia”, l’osso del cetaceo paleontologico varcò il portone del Battistero di San Pietro….

        Italo era costantemente innamorato del sapere. Sul treno che ci portava a Torino si parlava di tutto. Lui voleva che lo aggiornassi sui miei viaggi, e soprattutto su ciò che “non” avevo scritto nei miei reportage scientifici. Fu lui a scoprire un curioso aspetto di un mio quadrisavolo, il medico Giuseppe Maria De Rolandis, che, col chimico Giobert (pure astigiano) nel 1835 trovò il sistema di “colorare” i bacilli del colera destinati al microscopio, coi pigmenti usati per i tessuti. Giuseppe Maria De Rolandis pubblicò un libro (“Le cagioni della peste e del colera”) nel quale racconta un suo avventuroso viaggio ai piedi delle piramidi egiziane con Jean François Champollion. Questi decifrò i geroglifici attraverso la stele di Rosetta, il De Rolandis i morbi generati dalla mummificazione. La curiosità di Lillo la si potrebbe paragonare alla ricerca dei filosofi presocratici, dove mai nulla viene dato per scontato, ma ogni settore dello scibile offre argomento per affrontare quelle domande espresse nell’arte da Paul Gauguin: chi siamo, dove andiamo, chi è Dio? Lillo, da rigoroso scienziato, vagliando l’ordine che regola l’universo, era contrario alla casualità. E su questo punto le nostre convinzioni coincidevano, ben sicuri – entrambi – di essere poveri come Sant’Agostino, troppo poveri per aver la presunzione di offrire soluzioni metafisiche dove la fisica non riesce ad esprimersi.

         Era appena uscito nelle librerie il mio secondo libro sulla Sindone “L’immagine dal non conosciuto”. In quel testo, riportavo gli ultimi studi sui Rotoli del Mar Morto, e gli esami effettuati dalla Nasa sul Lino. Sul solito treno guardò la copertina del volume che tenevo nella cartella. Aveva gli occhi che brillavano di desiderio. Ma non disse nulla. Cambiò discorso raccontandomi che il Brenta, il torrente che corre sotto corso Dante, gli aveva inondato la cantina. “Poi mi dirai se ti è piaciuto” gli dissi mettendogli tra le mani il libro. L’ultima volta che lo vidi lo incontrai nella stradina delle poste. Era più alto, più magro, il volto certamente più austero. Non mi disse nulla della sua salute. Mi mostrò uno schizzo su una medaglia che voleva far coniare: da un lato il profilo di Giovanni Battista De Rolandis, e dall’altro la coccarda tricolore. “Ci dimentichiamo troppo spesso che i colori della nostra bandiera vogliono dire giustizia, libertà, fratellanza”.

        C’era clima di Natale, quel giorno. Le lampade degli addobbi accese, il vociare dei passanti, le vetrine cariche di doni. Socchiuse la bocca come per dirmi ancora qualcosa, poi concluse in fretta: “ci vedremo quest’estate…..” e svoltò.

 

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